La meditazione vipassana è un’antichissima pratica spirituale indiana, che risale a migliaia di anni fa e vanta una tradizione persino più ancestrale del Buddismo. Come molte tecniche spirituali simili è una meditazione che mira all’auto-purificazione attraverso una sorta di catarsi basata sull’osservazione e sulla riflessione interiore. Il tutto parte da una fase di concentrazione superficiale che progressivamente permette di raggiungere una percezione diversa della realtà che ci circonda, e così anche quella del nostro “Io” più intimo, attraverso una sorta di sublimazione psichica, ma prima ancora fisica. Va sottolineata l’assoluta indipendenza della meditazione vipassana da qualsiasi genere di setta o religione, istituzione o fede, totalmente scevra quindi dagli obblighi o dai doveri di una dottrina qualsiasi: si tratta di meditazione allo stato puro, che può diventare “esclusiva” solo attraverso la sua perfetta applicazione, ma allo stesso tempo restare sempre e comunque di disponibilità universale, aperta a chiunque sia in grado di liberare mente e corpo.
Nell’arco della sua storia ricca di peripezie, la meditazione vipassana si è affermata nel nostro continente solo nel Novecento, attraverso un filo conduttore che proviene dalla Birmania, dove si è sviluppata in due particolari scuole monastiche: una di queste si affidava allo studio e alla riflessione sull’esperienza vissuta, mentre l’altra sulla sensazione fisica e corporea dell’individuo. Ed è proprio dalla stratta correlazione tra questa due preponderanti influenze che si è formata la moderna meditazione vipassana che oggi conosciamo e con la quale possiamo entrare in contatto.In particolare, nello specifico della tecnica tramandata dal Gautama Buddha, si parla di tre “segni” fondamentali dell’esistenza:
1- Anicca: che indica l’eterogeneità dell’uomo, la sua instabilità e variabilità nel corso della sua vita;
2- Dukkha: che indica invece l’imperfezione dell’essere umano e delle cose che lo circondano, imperfezione che può condurre anche al dolore e alla sofferenza, sensazioni negative ma necessarie per comprendere la nostra realtà e per responsabilizzare l’uomo;
3- Anatta: una sorta di definizione sanscrita di “spirito interiore”, cioè tutto quello che non è essenza, che non può esistere e perdurare nel tempo se non a livello astratto;
La meditazione vipassana punta a conoscere e riconoscere queste tre verità fondamentali che spesso l’uomo ignora e nasconde dietro un’apparenza fallace e illusoria.Questo particolare genere di meditazione si basa principalmente sull’apertura verso uno sguardo interiore profondamente contemplativo, che non perde però il contatto con le sensazioni e le percezioni esterne.
Anche questo processo può essere suddiviso e riordinato in tre fasi: la “sila”, ovvero il mantenimento della moralità e della retta via; il “samadhi”, che indica la concentrazione massima che un uomo può raggiungere attraverso l’unione e l’equilibrio perfetto tra mente e corpo; e infine il “panna”, la vera consapevolezza di tutte queste fasi unita alla concezione dei tre concetti fondamentali: la comprensione della realtà dell’uomo nella sua complessità e del mondo che lo circonda.
Durante le tre fasi della meditazione non si devono mai dimenticare o tradire le regole di condotta verso uno stato di purezza superiore: chiunque voglia dedicarsi alla meditazione vipassana non deve uccidere nessuna creatura, che sia una formica o un grosso pesce d’acqua dolce, non deve rubare, deve resistere alle tentazioni della carne, attraverso l’astinenza sessuale e deve cercare di dire semper e solo la verità. A questi precetti morali si aggiungono alcune ulteriori indicazioni più superficiali, ma non per questo meno importanti, e sono l’astensione dagli abbellimenti di gioielli e altri ornamenti simili, l’astensione dal lusso in generale e dall’alimentazione passato il mezzogiorno.